Sanremo, i social e la critica

Le critiche al Festival di Sanremo non sono mai mancate, ma nell'edizione più social di sempre hanno catalizzato l'attenzione anche più del Festival stesso


Måneskin a Sanremo

A quasi una settimana dalla chiusura della settantunesima edizione del Festival di Sanremo devo dirlo: a me il Festival è piaciuto.

Un Sanremo criticato perché è esistito, perché “il canone degli italiani paga lo stipendio ad Amadeus e non i vaccini anti-Covid” – e Barbara D’Urso in prime-time non è altrettanto costosa? Chiedo per un amico. Il festival dell’Orietta-mania, dell’indie a Sanremo, dei falli nel pubblico e del trionfo inaspettato dei Måneskin. Un Sanremo per il quale si sono usate parole come gender fluid e omoerotico, il cui significato, probabilmente, non sarà neanche noto al 90% delle famiglie che prestano il proprio apparecchio televisivo per rilevare i dati Auditel. Non dimentichiamo poi Amorino, Patato e Ibrahimović che, per quanto all’Ariston ci stessero come il formaggio sulla pasta col tonno, a me hanno divertito.

Ecco quindi perché vi racconto il Festival in tre punti, non con gli artisti, le canzoni, le gag o i fuorionda, ma attraverso le critiche che gli sono state mosse:

L’indie è morto, viva l’indie!

Sulla carta, l’edizione venti-ventuno del Festival di Sanremo avrebbe dovuto consacrare l’approdo dell’indie al grande pubblico (leggi: over 35) italiano. Nella pratica, due sono state le reazioni alla lista dei nomi in gara: “ah ma Fulminacci è tra i Big?” e “ma Renga è di nuovo al Festival?”. Insomma, o non avevi la più pallida idea di chi fossero, o già sapevi che ti stavano sulle palle. Fa eccezione, però, Orietta nazionale che, tra un tirapugni brandizzato e l’altro, raccoglie anche il favore dei più diffidenti, se non per la musica, sicuramente per la simpatia.

La sala stampa premia Colapesce e Dimartino, che per un pelo poi non conquistano il podio alla serata finale con la loro personalissima reinterpretazione di Se mi lasci non vale (si scherza); d’altra parte, non raccontiamoci favole, non avrebbero mai potuto battere i Måneskin e Fedez (Codacons a parte) al televoto. Il duo, comunque, spopola sulle piattaforme di streaming e in radio perché Musica leggerissima funziona, alle radio piace, al pubblico pure. Al pari loro, anche i Coma_cose e La Rappresentante di Lista riscuotono un buon successo, sebbene sia chiaro che agli ascoltatori da casa non piacciano abbastanza per arrivare entro le prime dieci posizioni. Una sorta di sessantotto dell’indie, insomma, che sgomita per arrivare alla gente ma si incaglia nel tentativo di rendersi quanto più simile al pop possibile.

Eppure a me, questa volta, avevano davvero convinto …

L’Italia vs Achille Lauro

Achille Lauro Festival di Sanremo 2021

Achille Lauro, quando non è Achille Lauro, ha lo sguardo triste. Quando non veste i panni di qualcun altro, qualcos’altro, sembra quasi volersi scusare per essere dove si trova.

Sanremo è un palco a cui è ormai abituato – gli fanno notare di essere stato il primo artista ad essere presente al Festival per tre anni consecutivi – e sulle polemiche ci si è fatto le ossa. Non gli interessa se, a vederlo piangere sangue in Eurovisione, gli vengono mosse accuse di blasfemia. Non gli interessa nemmeno l’ostentato paragone con Bowie o i vari “ma Renato Zero lo faceva trent’anni fa con più eleganza”. Lui, con i suoi quadri, è glam, è rock, è pop e anche punk, senza essere nulla di tutto questo. E se pure Morgan spende due parole per dire che il suo non è teatro, è solo un travestimento, allora il gioco è fatto: parlatene bene o parlatene male, purché se ne parli.

Quanto ve la prendete da uno ad Aiello che urla “sesso e ibuprofene” se vi dico che a me Achille Lauro fa impazzire?

https://www.youtube.com/watch?v=ku9Ug59YVT0

A Sanremo, come a Thoiry, ogni tanto sembra di stare allo zoo: in mezzo ad artisti navigati (Francesco Renga, per citarne uno) che non sono in grado di reggere il palco, e giovani promesse che, al contrario, lo dominano come se ci fossero nate (un’impeccabile Madame, per esempio), una figura come quella di Lauro serve a ricordare che una performance progettata, studiata, pensata, non può passare inosservata. Scommetto che tra un paio d’anni probabilmente nessuno ricorderà più cosa fosse E invece sì, ma Achille, quello no, non lo dimenticheremo facilmente.

Parla, la gente purtroppo parla

I Måneskin trionfano al Festival mentre i social li chiamano rozzi, volgari, scurrili, inadatti alla posatezza che le settanta passate edizioni di Sanremo hanno consacrato. Pare quasi di leggere un articolo sui Rolling Stones dei primi anni Sessanta, quando Mick Jagger era solo poco più che uno scapestrato qualsiasi.

Li si addita per aver usato la parola “coglioni”, passata del tutto inosservata nei brani di Willie Peyote e Lo Stato Sociale, su un palco che non esige altro che decoro.

Vincono suonando il rock che piace a chi apprezza il pop e non a chi ama il rock, perché è chiaro che suonino come quattordicenni ad una festa della scuola e non siano neanche lontanamente paragonabili a (inserisci il nome di un gigante sacro del rock precedente agli anni Ottanta).

Non raccontiamoci fandonie, il problema non sono loro, che hanno talento e determinatezza da vendere. Il problema è chi non sa accettare che a vent’anni si possa essere bravi, interessanti e carismatici, senza subire il paragone con Tenco, Battisti, De Andrè da una parte, e con Led Zeppelin, Beatles e Rolling Stones dall’altra. Non sa di che cazzo parla, appunto.

Il Festival è anacronistico, rappresenta l’Italia che ricorda e non quella che ha davanti. Che forse i Måneskin, con la sfacciataggine di chi non ha nulla da perdere, siano riusciti dove i grandi, Manuel Agnelli e Fedez – che hanno determinato il loro ingresso a X-Factor – in primis, hanno fallito?

Siamo fuori di testa, ma diversi da loro, e meno male, mi verrebbe da dire.


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