Intervista | Sabina Airoldi e la difesa dei cetacei


La situazione dei cetacei nei nostri mari è critica, ma non tutto è perduto. Tethys, tramite il progetto Citizen Science, si pone come obiettivo quello di sensibilizzare e di istruire i cittadini alla preservazione dei cetacei tramite crociere scientifiche, fianco a fianco con biologi ed esperti del settore. Per approfondire questo interessante progetto abbiamo intervistato Sabina Airoldi, ricercatrice presso Tethys da oltre 30 anni.

Com’è nato Tethys e di cosa si occupa?

Tethys nasce nel 1986 come un’associazione e diventa nel 1987 un istituto di ricerca fondato da Giuseppe Notarbartolo di Sciara. Non esisteva nessuna informazione di Cetacei nei mari italiani se non quelli degli spiaggiamenti, non si sapeva nulla sulle specie e sulla loro distribuzione. Studiando il Mar Ligure è stato possibile vedere l’enorme diversità di specie e quindi nel 90/91 abbiamo presentato a Bruxelles una proposta per porre a protezione la zona del bacino Corso-Ligure-Provenzale. Nel 1999 è stata effettuata la firma per istituire un area protetta per i cetacei nel mediterraneo, il Santuario Pelagos. Abbiamo ad oggi 30 anni di dati di elevata qualità con strumentazione all’avanguardia e, pur essendo un istituto di ricerca privato, abbiamo 600 pubblicazioni scientifiche sui cetacei che nessuna università CNR può vantare. Abbiamo inoltre a disposizione anche il dataset di dati sui cetacei più grande del mediterraneo, è un bel record!

Com’è strutturato il progetto Citizen Science?

Tethys fa ricerca in diversi ambiti e in diversi paesi come Croazia e Grecia. Noi siamo una no profit quindi, oltre che a partecipare a bandi europei, abbiamo sposato la filosofia della Citizen Science, cioè la scienza fatta dal cittadino. Adesso se ne parla in tantissimi ambiti, alla fine degli anni ’80 eravamo gli unici in Italia e ancora oggi vengono coinvolti appassionati che affiancano i ricercatori marini e vengono ed eseguono in prima persona la raccolta dati. Si paga una quota per partecipare, il primo giorno viene effettuato un training-course e in seguito i passeggeri fanno avvistamenti, raccolgono dati respiratori, fanno identificazione, ricerca acustica, ascolti, registrazioni ecc. Molte di queste persone sono studenti universitari, anche perché l’esperienza può portare a crediti formativi a seconda delle facoltà di appartenenza, come ad esempio scienze naturali, scienze ambientali, biologia o veterinaria. È anche una delle poche occasioni che ha uno studente per provare con mano se questo è ciò che vuole fare nella vita, non sempre infatti l’università aiuta a capire com’è realmente il lavoro.

Com’è la situazione odierna dei cetacei all’interno dei nostri mari?

La situazione è drammatica. I cetacei sono in cima alla rete trofica quindi, per il discorso dell’accumulo delle sostanze tossiche, queste finiscono per accumularsi in quantità enorme. Nei nostri mari abbiamo problemi di inquinamento chimico e plastico. La plastica è arrivata alla notorietà solo ultimamente ma il problema è noto da oltre 15 anni. È entrata a far parte della rete trofica e di conseguenza tutti i pesci ne hanno al loro interno, recentemente è stato trovato un cetaceo deceduto con oltre 22 kg di questo materiale nel suo stomaco. Difficilmente però i cetacei muoiono direttamente per la plastica, a differenza delle tartarughe, ma resta comunque un problema, una concausa che debilita l’animale fino alla sua morte. Il problema è nell’assorbimento di nutrienti a livello intestinale, infatti la plastica va ad occupare spazio nel sistema digerente debilitando l’animale. Un animale selvatico in queste condizioni viene attaccato da molti parassiti e soprattutto da malattie, non potendo reagire a batteri, virus ed infezioni.

Cosa può fare ognuno di noi per arginare il problema?

Possiamo cambiare modo di pensare, cambiare mentalità e quindi cambiare comportamento. La prima cosa da fare è sempre chiedersi qual è il mio impatto, la mia impronta ecologica nel mondo o, in questo caso, nel mare. Ogni volta che prendo un oggetto di plastica monouso, come un bicchierino per il caffè, lo utilizzo per meno di un minuto… ma se finisce in mare ci resterà per oltre 1000 anni perché non si biodegrada e si frammenta in micro- e nano-plastica, diventando ancora più dannoso della macro-plastica in quanto riesce ad entrare all’interno delle cellule, diventando assolutamente irrecuperabile. Che senso ha che io usi un oggetto che nelle mie mani sta per meno di un minuto e che starà nell’ambiente per 1000 anni causando danni? Un minuto, mille anni. Un minuto di piacere per 1000 anni di danni in mare. Questa è la domanda che bisogna farsi, è davvero necessario prendere quell’oggetto di plastica? Non esiste un’alternativa meno impattante?

Spesso mi viene anche detto: “Ma io la plastica la riciclo perché la metto nella differenziata!”. Peccato che la gente non sappia quanto poco si riesca a riciclare. Quello che noi chiamiamo plastica è in realtà un insieme di molti polimeri diversi, derivati dal petrolio e che comunemente sono 17. Una bottiglietta di plastica è fatta minimo da 2 polimeri, altri oggetti sono fatti da 4 polimeri. Più polimeri ci sono e meno il prodotto diventa riciclabile. Nel mondo meno del 9% della plastica viene riciclata, il resto viene bruciato, termovalorizzato, buttato in mare.

Solo cambiando mentalità si può quindi fare la differenza.

Ringraziamo ancora la dottoressa Sabina Airoldi per la disponibilità e vi lasciamo di seguito alcuni link utili per prendere parte a questo ambizioso progetto:


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