Tutte le volte in cui Lou Reed ha raccontato la comunità LGBTQ+


La prima cosa che va detta su Lou Reed è che nulla – o quasi – di ciò che si sa di lui è vero.

Il trasformista del rock ha sempre cercato di creare un alone di mistero attorno alla sua figura e alla sua immagine non prettamente binaria. Pansessuale, bisessuale, poi eterosessuale radicale, con tre matrimoni e altrettante relazioni dichiaratamente promiscue alle spalle, qualcuno definisce Lou Reed la prima rockstar queer della storia.

Sia chiaro che l’omosessualità a metà degli anni Sessanta era considerata alla stregua di un peccato, sintomo di degrado morale. La polizia chiudeva i locali del Greenwich Village, lo Stonewall Inn tra i tanti, e ne arrestava i frequentatori con l’accusa di aver dato seguito ad azioni deplorevoli. La tentazione a tornare allo stile di vita del mondo bigotto per evitare le ritorsioni omofobiche era forte anche per Lou Reed.

L’eredità culturale di quel paroliere anticonformista con una passione per la letteratura è però la musica, ma Lou Reed non è sempre stato un musicista (you don’t say, direte). Prima di parlare di Lou Reed come membro della comunità LGBTQ+, vi voglio raccontare una piccola chicca: quando ancora non era musicista, Reed faceva radio. Conduceva un programma chiamato Excursions On A Wobbly Rail, ma una piccola bravata gli costò la carriera da speaker radiofonico. Nulla di eclatante, digerì sonoramente durante uno spot per una campagna di sensibilizzazione sulla distrofia muscolare. Scherzi a parte, gli anni del college alla Syracuse University gli permisero di sperimentarsi chitarrista, cantante e autore in molte band minori.

Kill Your Sons, l’esplorazione della sessualità

Quando Lou Reed non era ancora Lou Reed, una strana commistione tra genio e sregolatezza, il giovane Lewis era solo un ragazzo di provincia. Di famiglia ebraica, Lou è cresciuto a Freeport, nello stato di New York, in un clima fortemente puritano; della sua adolescenza, racconta, ha ricordi frammentati, complice la terapia con elettroshock alla quale i genitori lo avevano costretto.

But every time you tried to read a book
You couldn’t get to page 17
‘Cause you forgot, where you were
So you couldn’t even read

Kill Your Sons

Le persone a lui vicine riportano che avesse la tendenza a modificare la storia di volta in volta; ciononostante pare che la famiglia volesse guarirlo da quegli atteggiamenti effemminati che lo caratterizzavano. Era il 1956 e parlare di omosessualità e bisessualità era ancora un taboo; la pseudoscienza pareva l’unica soluzione per curare un giovane di origine borghese che si truccava il volto e dipingeva le unghie di nero.

La storia della presunta terapia di conversione alla quale Lou Reed fu sottoposto è stata poi raccontata in un brano iconico del 1974, Kill Your Sons, estratto dall’album più famoso della carriera solista dell’artista, Sally Can’t Dance.

The Velvet Underground e la storia della banana più famosa della storia

La vita di Lou Reed è stata irrimediabilmente segnata da due incontri: dal primo, quello con John Cale, nacquero i Velvet Underground, che furono de facto il primo approdo musicale stabile per Reed; dal secondo, con Andy Warhol, la neonata band divenne il simbolo della cultura degli anni Sessanta.

Andy Warhol amava sperimentare con diverse forme d’arte e la musica ricopriva un ruolo molto particolare. Alla Factory aveva accolto, tra gli altri, proprio i Velvet Underground, che in quegli anni stavano lavorando al loro primo album. Warhol li aveva anche scelti per scrivere e suonare la colonna sonora di un nuovo spettacolo itinerante, l’Exploding Plastic Inevitable, accanto alla cantante tedesca Nico.

Lou Reed è parte dei Velvet Underground, il cui album più famoso ha un'opera di Warhol in copertina

Lou Reed incontra il genio di Andy Warhol

The Velvet Underground & Nico (1967), il banana album, nacque così, dalla produzione artistica e musicale di Andy Warhol, che aveva disegnato personalmente la copertina del disco e curato l’estetica del progetto. I brani, che parlavano apertamente di libertà sessuale, fluidità di genere e omosessualità, furono un flop in termini di vendite e vennero etichettati come troppo trasgressivi per essere trasmessi dalle radio.

Warhol, che nella trasgressione trovava la sua più grande ispirazione, aveva volutamente scelto una copertina senza titolo e nome della band; solo una banana gialla, che nella prima edizione – e in una ristampa molto più recente – era accompagnata da un messaggio che invitava a “sbucciare lentamente e vedere” (peel slowly and see). Togliendo un adesivo appariva quindi la polpa del frutto, questa volta in fucsia; il riferimento erotico, sì, c’era ed era anche esplicito a sufficienza da spingere gli editori a interrompere la stampa del disco in quella versione.

Andy Warhol tornò, involontariamente, nella vita di Lou Reed molti anni dopo. A seguito della morte dell’artista, Reed gli dedicò un album, Songs for Drella (1990); il titolo unisce i nomi di Dracula e Cinderella a rappresentarne la natura poliedrica e bivalente.

Se volete scoprire di più sull’impatto culturale dei Velvet Underground, consiglio il documentario omonimo diretto dal regista Todd Haynes (Poison, Velvet Goldmine, Carol, Io non sono qui), fortemente impegnato nella rappresentazione cinematografica del mondo LGBTQ+.

Hey babe, take a walk on the wild side

Walk on the Wild Side è probabilmente il brano più famoso firmato da Lou Reed. La sua genesi è curiosa: dopo i Velvet Underground, la carriera andava decisamente male e l’ambiente della Factory non era semplice da dimenticare. Fu in questo contesto che Reed conobbe David Bowie, all’epoca fresco del successo del suo Ziggy Stardust.

C’erano storie che Lou avrebbe voluto raccontare al mondo fuori, personaggi che la gente non avrebbe mai potuto incontrare e, forse, nemmeno avrebbe voluto vedere. C’erano le attrici transessuali Holly Woodlawn e Cindy Darling, che erano state protagoniste dei film di Warhol, il prostituto omosessuale Joe Dallessandro (che indossa i famosi jeans sulla copertina di Sticky Fingers dei Rolling Stones) e Jackie Curtis, attore transgender diventato famoso vestendo i panni di una drag queen che sarà poi ispirazione dei look di Ziggy Stardust. Scrisse così una canzone che parlava essenzialmente di transessualità, dedicando una strofa a ciascuna delle persone che erano entrate nella sua vita e avevano camminato insieme a lui nel lato selvaggio dell’esistenza.

Bowie diventò produttore dell’album simbolo della carriera di Lou Reed, Transformer (1972), che conteneva, oltre a Walk on the Wild Side, anche Perfect Day e Satellite of Love. Il look glam rock, androgino, di Reed in copertina portò ancora l’artista a rappresentare quella che allora era la comunità degli ultimi, rifiutata dalla società. Il brano è ancora oggi oggetto di dibattito, spesso bollato come transfobico, ma la storia di Lou Reed, che all’epoca viveva apertamente relazioni con persone appartenenti alla comunità LGBTQ+, lascia intendere che si trattasse più di un tributo che di una condanna. “È una canzone d’amore gay da me, per loro” ha dichiarato, “ho cercato di scegliere le parole giuste per non risultare offensivo, ma credo che molte persone si sentiranno offese comunque”.


0 Comments

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *