Intervista | Johnny Shock: “Vorrei dedicarmi al mondo dell’arte”


Conosco Matteo Boveri, in arte Johnny Shock, ormai da tantissimi anni e nonostante la nostra stretta amicizia, ogni volta che parliamo c’è sempre qualcosa di nuovo che lui sta facendo rispetto alla volta prima. Se dovessi fare l’elenco di tutte le attività che ha intrapreso negli ultimi anni vi terrei impegnati per svariate righe. È un artista a tutto tondo: recita, suona, canta e conduce. Tra le altre cose è presidente di POLI.RADIO, la radio del Politecnico di Milano, che l’anno scorso ha festeggiato i suoi primi dodici anni di attività. Frequenta la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, in cui studia per diventare attore. Nel tempo libero che gli rimane, segue il corso di ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Sicuro non gli manca la forza di volontà, quella che lo faceva svegliare alle cinque del mattino anche il sabato per prendere il treno e non perdere le lezioni in accademia. Per questo, ci siamo fatti spiegare da lui come si possano portare avanti così tante attività impegnative in parallelo, senza impazzire e trascurarne qualcuna.

Come riesci a coniugare gli impegni universitari, l’accademia, la radio e i vari progetti che segui?

Se ti dicessi andare fuoricorso non sarebbe troppo positiva come cosa (ride ndr). Il rettore del Politecnico di Milano in un’intervista aveva detto che lui durante la giornata non si trovava mai a dover guardare l’orologio e ad aspettare che passasse il tempo per arrivare a sera. Per me vale più o meno la stessa cosa, perché ho veramente tanti impegni durante la giornata. Secondo me è una questione di mentalità, dipende da come fai le cose. Se fai cose che ti piacciono, anche stare fino a sera tardi o metterci tutte le forze fisiche, mentali o economiche che hai non ti pesa più di tanto. Soprattutto l’accademia e la radio negli ultimi due anni mi hanno occupato tantissimo tempo, ma non mi è pesato per nulla. Quello che mi porta avanti è la passione, nel gergo rap si dice “la fotta”, che è una parola che mi piace molto.

Come ti sei appassionato al mondo della radio e come hai iniziato?

Quando ero piccolo, mia madre faceva le pulizie con la radio ad alto volume in sottofondo e mi piaceva molto di più quando c’erano le persone a parlare rispetto a quando c’era la musica. In più sono logorroico. Quando giravo con la mia band, era più il tempo in cui facevamo cabaret o raccontavamo cose che quello che passavamo suonando. Due anni fa, una mia amica è venuta a sentire un mio concerto e mi ha proposto: “a cantare non sei tanto bravo, ma a presentare sì. Perché non fai la radio?”. Un’altra mia amica, studentessa del Politecnico, era entrata a far parte del team di POLI.RADIO e mi ha coinvolto in questo mondo. Insieme a me ci sono alcuni che vorrebbero fare solo questo lavoro nella vita, io diciamo che ci sono entrato per caso.

Quante ore ti tiene impegnato durante la settimana la radio? Che programmi conduci?

Quando si entra a POLI.RADIO bisogna seguire un periodo di formazione, lavorando a un programma chiamato Domani all’una, in onda tutti i giorni dall’una alle due. Io lo facevo una volta a settimana inizialmente, poi due. In seguito è nato Impreparadio, il programma che tuttora conduco. Andiamo in onda una volta alla settimana per un’ora. Il programma in sé non mi prende troppo tempo: impieghiamo un’ora per registrarlo e un’altra ora per scriverlo. Però da quando sono diventato presidente di POLI.RADIO, il numero delle ore è aumentato esponenzialmente. Se escludiamo l’ultimo periodo segnato dalla pandemia e dal lockdown, fino a febbraio passavo più tempo al campus Leonardo in radio che a Bovisa a lezione, tra programmi, cene e compilazione di documenti vari. Praticamente passavo più tempo in radio che nel resto degli altri luoghi durante il giorno.

Di cosa parla Impreparadio?

Impreparadio nasce perché volevo fare un programma comico, diciamo di cazzeggio, fondamentalmente. Io sono uno che non sa fare tante cose, ne faccio poche e male e volevo fare un programma in cui si spiega agli altri come fare le cose nella maniera sbagliata. Il mio collega Mirko, che in radio chiamiamo “il gran maestro” per le sue grandi doti da speaker, si è interessato molto alla cosa. Diciamo che lui, proprio come me, dentro di sé ha un’anima molto “cazzona”. Abbiamo poi cercato un regista più equilibrato e tranquillo e abbiamo trovato Giulio, che faceva “Domani all’una” il mio stesso giorno. Alla fine, abbiamo scoperto che è lui quello più matto di tutti, già dopo poche puntate. A Impreparadio insegniamo a fare le cose male e mi piace pensare che il programma ha una funzione non solo di intrattenimento, ma anche pedagogica. Io ti dico come fare le cose male e tu da persona intelligente devi capire che così non vanno fatte e quindi devi farle in un altro modo. Il format ha preso piede quasi a caso, il primo giorno abbiamo improvvisato. Oggi abbiamo ingranato e sappiamo che direzione prendere. Nel tempo abbiamo trattato moltissimi argomenti, come cucinare male, essere figlio male, essere un amico male. Tutte le puntate sono “essere qualcosa male” o “fare qualcosa male”. Un giorno abbiamo avuto Sofia Viscardi come ospite e abbiamo fatto “essere un influencer male”.

Abbandonando il discorso radio, secondo te, quanto è difficile sfondare nel mondo del teatro?

Questa è una domanda complicata. Sfondare nel mondo del teatro è difficilissimo. Le compagnie o i singoli attori si trovano a dover affrontare ancora più difficoltà rispetto agli altri mondi dell’industria culturale, come può essere la musica. In Italia, nel teatro molto spesso c’è questa gerontocrazia dei vecchi attori che continuano a riproporre testi vecchi e comunque ricevono finanziamenti dai teatri e dagli enti statali. Essi propongono solamente pièce teatrali classiche come quelle greche o Shakespeare. Le compagnie più giovani non ricevono molti finanziamenti quando propongono pezzi teatrali più moderni. La gente della nostra generazione vede il teatro come una cosa da vecchi, invece non è così. Penso alla stand-up comedy, che è una forma di teatro, va molto di moda e potrebbe interessare ai giovani se vi si approcciassero. Ci sono tantissimi esempi di compagnie giovani che fanno una marea di date e si fanno in quattro a ogni spettacolo, purtroppo senza avere una grandissima affluenza di pubblico. Penso ai Kepler 452 o Generazione Disagio, che hanno vinto anche premi come “Premio giovane realtà del teatro”. Hanno tante cose da dire ma spesso non hanno fondi a sufficienza. Diciamo che alla fine si ripropongono sempre le solite cose. Non ne sottovaluto l’importanza per carità, ma ci sarebbe bisogno di qualcosa di nuovo. Ci sono tanti registi che marciano sopra questa cosa, come il mettere in scena cose super complicate che il pubblico non capisce. Questo modo di intendere teatro non ha niente a che vedere con il mio modo di fare le cose.

Ma è vero che fare teatro aiuta a controllare il tuo corpo e gestire le emozioni?

Sì, è vero. Da quando frequento l’accademia sono migliorato molto dal punto di vista della coordinazione dei movimenti, grazie soprattutto alle lezioni di teatro-danza e di recitazione. Il teatro ti permette di
imparare che ruolo hai nello spazio e anche come relazionarti con le altre persone. Inoltre, si possono apprendere anche altre cose come piangere a comando o azioni simili.

Tu hai seguito un sacco di altri progetti. Quale ti ha arricchito di più?

Sicuramente il progetto con Audi, anche umanamente, mi ha lasciato tanto. Si chiama We Generation e i protagonisti sono cinque giovani di età universitaria che fanno un viaggio in Italia, condotti da un mentore, Sofia Viscardi nel mio caso. Il suo compito è quello di guidare questi ragazzi in varie tappe in cui si incontrano personalità differenti che spiegano come funziona il mondo dell’innovazione nel nostro paese, a livello culturale, tecnologico, economico e non solo. L’esperienza è stata totalizzante: quando vai in tour ti chiamano, fai solo quello per tre o quattro giorni e te lo dicono praticamente senza preavviso. Questo percorso mi ha permesso di portare la mia voce e i miei valori in un mondo che si discosta dal mio, in un contesto molto differente. Questa esperienza mi ha messo molto alla prova soprattutto a livello valoriale. Ultimamente ho vinto un altro bando per il progetto Let’s keep in touch, proposto dagli organizzatori della stagione teatrale al Castello Sforzesco. Esso nasce con l’obiettivo di valorizzare dal punto di vista culturale il Municipio 1 di Milano. Noi giovani saremo organizzatori e direttori artistici di un evento culturale che avrà a che fare con la performance dal vivo. Il tutto ragionando anche di urbanistica, materia alla quale io, pur essendo figlio di un architetto, non mi ero mai approcciato.

Un episodio della seconda stagione di Audi We Generation a cui Johnny ha partecipato.

So che sei molto interessato a diverse cause sociali. Qual è quella in cui credi di più?

Il problema nella nostra epoca storica è rendere concrete le idee che abbiamo. Io vorrei una società fatta in un certo modo. In università ho studiato una teoria di passaggi incrementali, per cui ti prefissi un obiettivo altissimo, considerando che non lo raggiungerai mai, ma questo ti permette di avvicinarti e di fare alcuni passi avanti. In questo periodo, sono molto vicino alle “Brigate per la solidarietà” a Milano, circuito supportato da Emergency, ONG in cui credo molto. Ci si occupa di portare pasti caldi a persone in difficoltà, che non riescono a uscire di casa. Ogni zona di Milano è presidiata, per raggiungere e aiutare più gente possibile. Inoltre, l’attore Paolo Rossi ha creato la “Brigata brighella”, che si occupa di fare intrattenimento per tutti coloro che non possono andare al cinema o a teatro. Ci si trova nei cortili dei palazzi di Milano e si organizzano spettacoli gratuiti, con poco preavviso. È un modo di fare cultura dal basso, pensata per le persone, una vera cultura popolare, ma non nel senso di semplicista o svalutata. Questo modo di fare cultura è lo stesso con cui faccio le cose anche io, in accademia e in radio.

Considerando tutti i vari progetti che stai portando avanti, dove ti vedi tra cinque anni? Cosa pensi che farai?

Beh in primis spero di essermi laureato (ride ndr), perché sarei al nono anno di triennale. Per il resto credo improvviserò. La laurea in ingegneria è sicuramente un valido paracadute, ma spero di fare tutt’altro. Inaspettatamente, l’università mi ha insegnato un sacco di cose che hanno a che fare col modo in cui mi approccio al teatro e alla cultura. Nel mio caso più che “impara l’arte e mettila da parte”, vorrei mettere da parte il lavoro pratico e dedicarmi al mondo dell’arte. Quello che mi interessa è lavorare nel mondo della cultura, in che ambito è indifferente, qualsiasi lavoro abbia a che fare col mondo culturale va sempre bene.

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Matteo Piana

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